top of page

Scienza della coscienza

Aggiornamento: 15 giu 2024



Scienza della coscienza

Se vi siete messi a leggere questo articolo, non dovreste essere proprio di cattivo umore. Di sicuro avete avuto momenti peggiori. Come è strano: siamo sempre noi, quel contenitore di quell’altezza e quel peso e con quella faccia, in condizioni sostanzialmente immutate da un giorno all’altro ma capaci di ospitare stati d’animo completamente diversi.

 

Stati d’animo, umore, emozioni, sensazioni,…ma di cosa stiamo parlando? Se il metodo scientifico è il nostro faro, se crediamo che siano indagabili solo fenomeni misurabili, verificabili sperimentalmente, è inevitabile consegnare questo tipo di esperienze all’ambito del non verbalizzabile, del non indagabile. L’adagio consegnatoci da Wittgenstein lo conosciamo: di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere. Partita chiusa.

Davvero?

Proviamo a riaprire il caso parlando d’altro, anzi, parlando d’acqua. In essa non c’è nulla di particolarmente complicato. Come scriveva di recente Pietro Greco “C’è un grosso atomo, l’ossigeno, legato a due piccoli atomi di idrogeno. Il comportamento di una molecola d’acqua è descritto (con qualche difficoltà di carattere pratico) da note equazioni della meccanica quantistica. Ma mettiamo insieme miliardi e miliardi di molecole di acqua in un recipiente, a temperatura e pressione ambiente. Vedremo questo collettivo di molecole che inizia a gorgogliare, a gocciolare, a luccicare. Le molecole hanno acquistato una proprietà collettiva: sono diventate un liquido. Nessuna di esse, presa singolarmente, può essere definita una molecola liquida. Lo stato liquido è una proprietà emergente. Una proprietà che è sola dell’insieme di molecole.”

In verità, in chimica si trovano molti esempi di composti con peculiarità che non appartengono ai singoli reagenti e non c’è modo, a partire da essi, di prevederli. Le interazioni portano a proprietà sorprendenti e nuove. Qualcosa di più che “la somma delle parti non fa l’intero” perché il risultato è tutta un’altra cosa. Oppure, come spiegava il fisico teorico Philip Anderson in un celebre articolo del 1972, “More is different”.

L’esempio che per eccellenza parla di proprietà emergente è il fenomeno della vita. Nessuna singola molecola o organello all'interno di un organismo vivente può essere considerata "viva" di per sé. La vita emerge dalla interazione di tutti i componenti all'interno di una cellula e tra le cellule di un organismo. In questo caso, il comportamento del sistema “organismo vivente” manifesta proprietà insospettabili e stupefacenti rispetto a quelle delle parti non organiche di cui comunque è costituito.

 

Il concetto di proprietà emergenti è fondamentale per la comprensione di sistemi complessi. Può aiutarci nel caso della coscienza?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo chiederci innanzitutto quali sono gli elementi di partenza che dovrebbero costituire il sistema “coscienza”. Questi dovrebbero essere le cellule neuronali e le sinapsi che le collegano. Che le cose stiano così è testimoniato dal fatto che ogni danno fisico al cervello, sede delle cellule neuronali, ha conseguenze sul livello di coscienza. Lo studio di individui con danni cerebrali ha consentito di osservare come il loro comportamento e l'attività cerebrale differiscono da quelli degli individui sani. A queste evidenze “sperimentali” oggi si sono aggiunte tecniche come la fMRI e le scansioni PET che mostrano quali aree cerebrali si attivano durante le esperienze coscienti, i correlati neurali della coscienza. Anche se non comprendiamo appieno la relazione tra attività cerebrale e coscienza, queste correlazioni suggeriscono una base fisica per l'esperienza soggettiva. Con buona confidenza si può dunque dire che il cervello è la sede dove si invera il fenomeno della coscienza, lì è l’hardware di partenza.

Dunque, problema risolto? La coscienza è come l’acqua? Ovvero, alla stessa stregua in cui si mettono insieme idrogeno e ossigeno per ottenere l’acqua, basta mettere insieme neuroni e sinapsi e si ottiene la coscienza. Mmmhh, non è proprio così. Con poco idrogeno e poco ossigeno si ottiene poca acqua, con pochi neuroni e poche sinapsi non si ottiene nulla. Sembra, e insistiamo a dire sembra, che occorra un livello minimo di complessità perché si abbiano segni di coscienza.

Ma quali sarebbero questi segni? Quali effetti dovremmo osservare per poter dire “ecco, questo sistema è cosciente”?

I primi ad essere normalmente citati sono le “esperienze soggettive” (il rossore del rosso, il dolore, la gioia di un bel tramonto, i qualia, l'aspetto "come ci si sente" delle cose), effetti che noi, in questa sede, deliberatamente escludiamo. Preferiamo non tanto guardare alla nostra esperienza interiore ma quanto a stati registrabili da un osservatore esterno. Ci concentreremo sui dati comportamentali.

La risposta agli stimoli è un criterio di distinzione della realtà intorno a noi. Intanto tra enti non viventi e organismi viventi. Questi ultimi si differenziano ulteriormente a seconda che abbiano o meno un sistema nervoso centrale (SNC) e/o una qualche forma di coscienza. Ne viene fuori la seguente tripartizione:

·      Oggetti non viventi che offrono nessuna risposta agli stimoli: gli oggetti non viventi, come rocce o acqua, non rispondono agli stimoli in modo attivo o adattivo. Qualsiasi cambiamento nel loro stato è puramente il risultato di forze fisiche esterne che agiscono su di loro e non hanno meccanismi per avviare o modulare le risposte.

·      Organismi viventi senza sistema nervoso centrale capaci di risposte deterministiche: gli organismi senza sistema nervoso centrale, come le piante semplici o alcuni microrganismi, hanno risposte integrate e prevedibili agli stimoli. Esempio ne sono il fototropismo nelle piante (le piante crescono verso la luce) o la chemiotassi nei batteri che si si avvicinano o si allontanano automaticamente da determinate sostanze chimiche.

·      Organismi viventi con SNC/coscienza ovvero risposte non deterministiche: gli organismi dotati di qualche forma di coscienza o di sistema nervoso avanzato, inclusi gli esseri umani e molti animali, mostrano risposte più complesse e spesso imprevedibili agli stimoli. Ciò è dovuto a diversi fattori (stati interni e ricordi, adattamento e apprendimento, processi decisionali,…) che rendono non deterministiche la risposta agli stimoli esterni. Rispondiamo agli stimoli del nostro ambiente, facciamo scelte, pianifichiamo azioni e interagiamo con gli altri in modi non prevedibili, non deterministici, che suggeriscono la concorrenza di stimoli interni, una consapevolezza interna.

Da quanto abbiamo appena detto sembrerebbe che una risposta non deterministica sia un buon indicatore di coscienza ma attenzione che un generatore di numeri casuali si candida così al livello di coscienza più alto che si possa avere! È chiaro che ci deve essere qualcos’altro.

La domanda diventa: ma come si trasforma l’hardware neuroni + sinapsi, cosa diventa per inverare quel centro di decisioni “autonome” che chiamiamo coscienza?

Lo stato dell’arte della disciplina vede in campo diversi sforzi ma due sono gli approcci che raccolgono il maggiore interesse:

  Teoria dell'informazione integrata (IIT): Proposta da Giulio Tononi, l'IIT suggerisce che la coscienza corrisponde alla capacità di un sistema di integrare informazioni. Questo approccio quantifica la coscienza attraverso una misura chiamata "Phi" (Φ), che rappresenta il grado di integrazione delle informazioni nel cervello.

  Teoria Globale dello Spazio di Lavoro (Global Workspace Theory - GWT): Sviluppata da Bernard Baars e ampliata da Stanislas Dehaene, questa teoria propone che la coscienza emerga quando le informazioni sono ampiamente diffuse nel cervello attraverso un "spazio di lavoro globale". Questo spazio consente una comunicazione integrata tra diverse regioni cerebrali.

Citiamo queste due teorie senza approfondirle, sia perché richiedono uno sforzo non congruo a questa sede, sia perché sono ancora lontane dalla possibilità di qualsiasi verifica sperimentale.

L’interesse per questa disciplina è cresciuto negli ultimi anni sia per motivi prettamente epistemologici (anche qui vogliamo sapere “come funziona”) sia perché la realizzazione di macchine che calcolano e organizzano informazioni molto meglio di noi, ha affacciato la domanda: se è solo un problema di complessità o computazionalità, ma quanto siamo lontani da una coscienza artificiale?

Di nuovo interviene qui il principio della persistenza. In natura sono state provate diverse scatole nere, ad esempio diversi modelli della realtà con cui confrontare gli stimoli esterni, e alla fine sono sopravvissute solo le scatole nere che garantivano la persistenza. Tutte le altre opzioni, senza pregiudizio verso nessuna, sono state progettate e provate e infine sono scomparse. Alla fine, siamo in presenza di un tipo (l’unico?) di coscienza che garantisce la persistenza della scatola organica che la ospita. Ad oggi, è difficile dire qualcosa di più di questo.

 
 
 

Comentarios


bottom of page